STORIE DAL MIO GARAGE

Cronache (vere, o ispirate dal vizio di scrivere) di una motociclista italiana emigrata dove i locali, se possono, se ne vanno altrove.


29 agosto 2012

Senza mai perdere il filo



Foto: Rebecca Heyl
Oggi vorrei parlare di un’amica. Di una donna prima di tutto, che tanti anni fa, ormai, ho scoperto grazie all’”Impatience” che in quel momento già mi stava portando a più profonde riflessioni intorno alla moto, e che è diventata per me una specie di doppio potenziale, un modello da raggiungere, “accessibile” e terreno dopo che lei si è lasciata avvicinare in maniera spontanea e generosa.
Un compleanno del lontano 1997, o ‘98, un regalo: un libro di quelli che passano in sordina qui in Italia, pubblicato per chissà quale strano caso visto che oggi nessuno gli darebbe credito: “Il veicolo perfetto” è finora (a parte il mio saggio, che non fa testo, essendo una pubblicazione passata praticamente inosservata, in Italia) l’unico libro sulla motocicletta scritto da una donna, Melissa Holbrook Pierson.
Attraverso la propria sensibilità, che non occorrerebbe nemmeno sottolineare “diversa” da quella maschile, e una mano indubbia da scrittrice, Melissa ripercorre la storia della moto come invenzione folle dell’uomo, da un punto di vista finalmente storico e culturale, alleggerendo il tono della narrazione con la sua propria storia da quando, come accade per molte di noi, incontra la moto del cuore e impara a guidarla e a conoscerla e ad amarla grazie al/ai propri fidanzati.
Il libro mi piacque moltissimo, e notai soprattutto i numerosi riferimenti cinematografici che Melissa citava. Mi immedesimai nell’opera che aveva scritto per come l’aveva scritta, al punto da volerla conoscere. Ed ebbi l’ardire (e la fortuna) di ottenere il suo indirizzo dall’editore, di scriverle, negli Stati Uniti...e di ricevere a breve una grande busta pluri-affrancata (che conservo), e che conteveva una sua lettera e un catalogo della Wildhorse Press, dove Melissa mi indicava un altro libro che avrebbe potuto interessarmi. Era, quella prima lettera, cortese e curiosa nei miei confronti: entrambe avevamo studiato cinema all’università, entrambe eravamo donne, dotate di un’indubbia femminilità – non lesbiche, per intendersi, visto che l’approccio cambia – e motocicliste. In un certo senso ci sentimmo – io almeno - l'una il corrispettivo dell'altra, nonostante i dieci anni di differenza che ci dividevano. Fu un avvicinamento emotivo, pieno di rispetto, e che sottintendeva la nascita di un legame imperituro, seppur senza pretese di assiduità o di rispecchiamento eccessivo.
Nella prima versione del mio saggio utilizzo diverse citazioni dal libro di Melissa: le sue ricerche puntuali e dettagliate mi facilitarono il lavoro, e il suo supporto a distanza mi rassicurava. Stavo facendo la cosa giusta....anche se nel paese sbagliato.
“The perfect vehicle” infatti è diventato un cult negli Stati Uniti, ma là, l’atteggiamento della gente (più “indifesa” alle novità, meno cinica e prevenuta per una sorta di candore naturale, e disposta a stupirsi anche degli aspetti della vita apparentemente marginali) e soprattutto la quantità e varietà, disseminata su uno spazio sterminato rispetto al nostro, sembra garantire una nicchia di pubblico a ciascun settore. Cosa che qui non è. Dall’Italia  - lo so per certo perché mi chiese gentilmente di informarmene – non le arrivarono mai neanche i diritti d’autore per il libro tradotto....
Foto: Rebecca Heyl
Nel 2000, un’altra amica che andò a New York mi fece il favore di incontrarla, e di scattarle una foto. Mi piacque, mi sembrò simpatica e alla mano, esattamente come quando ci scrivevamo via mail. E aspettava un bambino, cosa che all’epoca ci allontanava parecchio! In effetti per più di un aspetto: la nascita di Raphael coincise per Melissa con l’abbandono della moto per circa undici anni: un periodo "oscuro" in un certo senso, trascorso a un diverso ritmo, e di cui, in parte, parla nel suo ultimo libro, che riprende la qualità e l’argomento del primo, purtroppo finora disponibile solo in inglese: "The Man who would stop at nothing".
La causa per cui rinunciò alla sua adorata Guzzi non fu solo quella “classica” del terrorismo psicologico fatto dai parenti su una madre che non può più permettersi di rischiare la propria vita, ma un’altra anche più semplice: il compagno NON era un motociclista nella vita: non la spinse a tenersi la moto o, al limite, a ricominciare ad andarci dopo poco tempo. Al "veicolo perfetto" seguirono altri libri, in quegli anni, ma di diverso tema (non sui bambini!), e che neanche lontanamente ottennero il riconoscimento del primo.
Nel 2006 ho finalmente conosciuto Melissa, in un caffé all’aperto, dietro uno splendido mercato nel quartiere di Brooklyn. Ci parlammo, mentre spalmava del miele su una fetta di pane caldo per Raphael, lì con suo padre (che ricordo a malapena: un’omone schivo, di origine belga, che se ne rimase per i fatti suoi e che non m’ispirò particolare simpatia).
Mi stupii, allora, di provare lo stesso senso di vicinanza emotiva verso di lei, nonostante le nostre storie fossero, a quel punto, molto diverse. Ma era un fatto: Melissa continuava a rappresentare per me un modello, quel che io sarei stata dopo qualche anno, alla sua età in quel momento: scrittrice, motociclista (quell’”ex” non mi convinceva molto, e avevo ragione), madre. Non pensavo di avere figli nel 2007, lo giuro! ma evidentemente una parte inconscia di me sì. Quasi a ricalcare un ideale romantico, che covavo dentro come un segreto. Quel che non sapevo, magari, era che sarei rimasta inedita più a lungo di lei! Ma questo, purtroppo, non c’entra con me, piuttosto con l’epoca e il luogo dove sono nata e dove, finora, ho scelto di vivere.
Nel 2008 l’ho rivista, e molte cose erano cambiate: divorziata, andammo a trovare lei e suo figlio con la nostra RoadKing presa a noleggio a Boston, nella casa che aveva affittato in mezzo a un bosco sulle Catskill Mountains, un posto bellissimo. Ecco, un’altra cosa ancora ci accomuna: la scelta di vivere in un ambiente selvaggio, spostandosi con i propri mezzi verso la città solo quando necessario. Posso dire di averla vista (e fotografata) in uno dei suoi momenti peggiori: ferita a morte, abbandonata, confusa. Le dissi, ricordo, che avrebbe solo dovuto ricomprarsi una moto. Cosa che ha fatto, successivamente, per riprendere il filo della propria storia: su due ruote. Ci sono cose che non potranno mai essere cancellate dal nostro DNA, come un codice genetico secondario.
Nel 2009 ci siamo riviste ancora,in un tardo pomeriggio gelido, in un diner a mezza strada tra casa sua e il nostro alloggio a Manchester, CT. Era finalmente rinata, positiva e con la maturità di una cinquantenne, il che la rendeva ancora più bella. Volle farmi un’intervista per un giornaletto locale di BMWisti – tanto per contribuire al mio narcisismo latente – ma la cosa migliore tra noi fu di poter parlare per la prima volta, e di persona, la stessa lingua, seppur zoppicando tra le proprie.
Ora l'aggiorno costantemente sulle mie novità, che sono poi i miei sforzi per pubblicare il mio libro all'estero. Come al solito, quando mi può aiutare in qualche modo, lo fa, senza riserve. Io le mando foto della mia bambina, lei me ne manda dei suoi ultimi viaggi in sella alla moto, e di suo figlio Raphael, che le somiglia.

19 agosto 2012

To be...or not to be?



Premetto: questo è un discorso che avrei tanto voluto fare a voce, a mio fratello. Purtroppo - e mio malgrado - in questo momento ci separano anni luce di distanza, e quindi niente. Tuttavia, credo che il tema, o la scusa, possa essere di un certo interesse per motociclisti e non, e questo è il motivo per cui ne scrivo.
Anni di scrittura mi hanno fatto prestare sempre più viva attenzione alle parole. È importante come si usano le parole, in che circostanza e per quale scopo. Se non altro per non rischiare il fraintendimento.
Ora: l’altra mattina ho fatto la solita scappata sul Passo del Muraglione con la mia GS: nessuno in strada, aria fresca che snebbia la mente, senso di conquista della cima dopo una sfilza di belle curve (troppo belle per farle solo una volta ogni tanto..ma crescerà pure, ‘sta bambina mia..). Insomma: un buon quarto d’ora in salita, e un altrettanto buon quarto d’ora in discesa, un bel modo di iniziare la giornata.
Sono entrata nel bar solo per vedere l’ora: c’è una bella parete di foto con dedica a Giovanni da parte di motociclisti e piloti, e ho riconosciuto subito il logo e la mano di mio fratello nel piccolo manifesto di Curve & Tornanti (scuola federale di guida sicura su strada e fuoristrada, www.curveetornanti.it ) in cui si invitano gli interessati alla “EXIBITION” che si terrà proprio sul passo il 15-16 settembre prossimi.
...Exibition?
Theresa Wallace, istruttrice...
 Sì, mi pare di ricordare che ce ne siano state altre, gli anni passati, per ricominciare, diciamo così, l’”anno accademico” dei corsisti che si iscrivono alle lezioni di teoria e pratica su strada per imparare a guidare bene le loro moto. Ma perché questo termine? Nel migliore dei casi, e sottilineo, il migliore, immagino che si preveda qualche buon numero di trial o di fuoristrada forse, su un fetucciato improvvisato proprio lì, o nei dintorni; qualche spettacolo di bella guida, insomma, fatto dagli stessi professionisti che poi danno il meglio di sé come istruttori. Eppure, più ci penso e più dubito che si tratti solo di questo.
In stretto gergo motociclistico, qualsiasi “esibizione”, solitamente al’interno di fiere e circuiti, è prima di tutto quella di tette e culi di qualche bella ragazzotta, per attirare la marmaglia sotto il denominatore comune di “moto e donne” come strumenti dominabili. Sempre la solita pappa.
Se la mia è prevenzione, come si suol dire, “peste mi colga”...va detto però che, in tal caso, la colpa principale è da attribuire all’uso della parola incriminata, “exhibition”. Profondamente contraddittoria con le intenzioni assolutamente “nobili” di qualcuno che intende offrire i propri insegnamenti e la propria esperienza al dilettante (o all’umile, che si mette a disposizione per questo). Un istruttore motivato non ha alcun bisogno di ESIBIRSI, quanto semmai di “mostrare” e di  “trasmettere” quello che sa (e che, tra parentesi, ha anche lui imparato da qualcuno). In tutta umiltà, lui stesso..perché mica è nato con la scienza infusa!
Dico questo perché conosco i miei polli. E so che, nonostante la qualità indubbia di questi corsi e la bontà delle intenzioni iniziali, quella di certi motociclisti è innanzitutto una parata; l’esibizione, senza mezzi termini, del proprio presupposto (o reale) talento. Una caratteristica, senza dire un difetto per forza, prettamente maschile in quest’ambiente: goliardico dai tempi dei tempi, pieno di esempi di temerarietà e di vero coraggio, di quell’atmosfera “da pacca sulla spalla”, che se da un lato sembra solo ammirazione per il compagno, rispecchiamento del proprio essere “un vero maschio”, dall’altro svela una neanche troppo nascosta inclinazione omosessuale. Con questo: anche le donne hanno le loro patologie, in questo senso.
Ma la cosa peggiore è che se la vocazione primaria dell’insegnante/istruttore è la propria esibizione, la “missione” di istruire (che altro non è, l’insegnamento di qualsiasi disciplina, vista la responsabilità che comporta) è inevitabilmente sporca di protagonismo, e scarsa di rispetto per l’individuo, che appare in partenza un inferiore,  un inetto, schiacciato dal peso della propria ignoranza o goffaggine.
La passione diventa lavoro, e il lavoro diventa presto una frustrazione così, perché fatto in compagnia di individui (gli “studenti”) di cui, in sostanza, importa poco. Basta che paghino a fine corso, no? Che appaiano un po’ innamorati del carisma degli insegnanti (l’esibizione senza applauso  viene presto a noia!!), quanto basta magari per iscriversi una seconda volta; e che alla fine, incorrano in meno incidenti che in passato. E il gioco è fatto.
...perché non "raduno"? - Foto Tommaso Pini
Se ancora non si è capito, la vista di questa parola, “Exibition” mi ha fatto montare i nervi. È che  in sé non mi piace, estrapolata dal suo contesto teatrale, e soprattutto in quest’ambito. E poi perché in inglese?? Ci si sta riferendo, per caso, a un pubblico di smanettoni britannici?? O c’è bisogno di una prova di pronuncia per essere ammessi, all’ingresso?
Non era meglio, più semplicemente , qualcosa come “Festa”,  “Evento” o “Raduno”, quest’ultimo, tra l’altro, sempre dolcemente rievocativo quando si parla di due ruote con un po’ d’anima?
Vorrei sorvolare, infine, sulla presenza delle donne in tanga, visto che la mia è solo un’ipotesi, e magari mi sbaglio. Ma una cosa vorrei dirla. Chi spaccia la propria professione per “nobile”, dovrebbe sfidare il mercato, e avere il coraggio di  non andar dietro allo stile della maggioranza. In tutte le manifestazioni motociclistiche attuali ci sono le hostess in succinti costumini o con l’ombrellino e i tacchi a spillo, non sono certo nata ieri. Il fatto è che, in fin dei conti, si dà il presupposto che ci si stia rivolgendo a una massa di bufali...Ma allora....con che coraggio poi, in questo caso, si pretende che abbassino le orecchie  e vengano buoni buoni ad imparare a guidare? Non sarebbe più coerente esporre un diverso criterio, un approccio originale e un po’ più elegante al percorso che vuole arrivare a una guida pulita? Personalmente non vedo nessun rispetto qui, né per questi “studenti” potenziali, che non dovrebbero aver bisogno di esche simili, trite e ritrite, né per le donne in generale, sì: il mondo italiano della moto (eccetto pochissimi illuminati) di fatto “ammette”, o “tollera” la presenza di donne motocicliste (l’ho già scritto: insegnare loro, in questo senso, è un’altra forma di sottomissione, nient’altro).  E di questa arroganza ne ho piene le scatole.
Perché poi la realtà è questa: che il rispetto verso di noi è di fatto minore di quello che questi uomini attribuiscono alle proprie moto.