STORIE DAL MIO GARAGE

Cronache (vere, o ispirate dal vizio di scrivere) di una motociclista italiana emigrata dove i locali, se possono, se ne vanno altrove.


18 novembre 2012

La verità di Cabiria



adorabile cabiria...
Era il 1957, e Giulietta Masina faceva inconsciamente da portavoce al popolo di Roma, esprimendo in sintesi le differenze tra la gente comune (il popolo, appunto) e quei pochi che ancora si potevano permettere il lusso dell'automobile.
Lei, sotto le vesti della più adorabile delle prostitute, Cabiria (in uno dei pochissimi film di Fellini che, personalmente, non sono invecchiati, restando capolavori) la vediamo smontare dal vano di carico di un'ape che sciupa l'incanto della notte con lo strepito del suo due tempi. Saluta con un certo affetto l'avventore abituale che l'ha avuta probabilmente non più di mezz'ora, e si avvicina al gruppetto di conoscenti che stazionano lì: altre prostitute più o meno "amiche" sue, e il magnaccia, a occhio e croce un ragazzo che ha fatto carriera presto in quel settore, e che da poco "si è fatto" la Seicento. Facendo le lodi della macchina, il tipo si avvicina a uno dei ragazzi che con le loro motociclettine sul cavalletto stanno intorno alle donne, come mosche sul miele, e gli dice: "Ah Brù! Sempre su 'ste brode, stai? Ma come fai...." Il resto non si capisce, ma il senso è chiaro: la moto è per i poveri, o al limite per i fannulloni che non sanno che fare delle loro vite, e passano il tempo ronzando intorno alle puttane.

Cabiria, da parte sua, si avvicina tutta entusiasta alla Seicento nuova di zecca, ed esclama: "Carina, eh? Che sciccheria! Io se fossi stata te me la sarebbe fatta grigia, è più un colore fino...però è carina!" e poi aggiunge: "Eh! Certo che la Fiat è sempre la Fiat, eh? Embè, con la macchina è tutta un'altra cosa. Ti metti al volante, tutta cosona, la freccia a destra, la freccia a sinistra BRAM! BRAM!....Ti scambiano per una persona DISTINTA, un'impiegata, una fia de papà. E allora vedrai che sono gli uomini che ti vengono appresso. Ah!  È una soddisfazione".
Chissà se questo monologo è stato inserito in sceneggiatura dopo che le immagini "selvagge" di Marlon Brando sulla sua Triumph erano arrivate anche sui grandi schermi italiani, consacrando il motociclista a ribelle irrecuperabile, a violento (e piuttosto stupido). Chissà se i ragazzi romani appollaiati sulle loro Gilera o MV (chi mi aiuta a identificare almeno un paio delle piccole moto che si intravedono in questa sequenza?) avevano visto il film di Benedek, e apposta "giocavano" a interpretarne la versione italiana...in un certo senso più onesta: da noi le due ruote erano servite a rimettere in piedi il paese, nel dopoguerra. Erano state molto più che un mezzo per ribelli, per ragazzi pigri a trovare migliori motivazioni.
E comunque, se non si usavano per andare a lavorare, le moto da noi erano una scuola di vita: le si poteva ricostruire o modificare o aggiustare, e anche questo costituiva un metodo potenziale per trovarsi un impiego.
È un fatto, comunque, che nel film di Fellini le moto facciano da co-protagoniste a giovani farfalloni,  a ragazzi semplici, stereotipi del "maschio" italiano tipico dell'epoca (che in verità non si è troppo evoluto): appassionato (ma non necessariamente esperto, eh! eh!) di donne e motori.

Volendo comunque recuperare un po' il mito del Selvaggio, si può dire, come scusante dei bikers che ispirarono il film con Marlon Brando, che erano quasi tutti disoccupati, da poco tornati dalla guerra in Europa, dove ne avevano viste di tutti i colori, e piombati nell'America "felice" del New Deal, sicuramente confusi da tanta allegria e ottimismo, demotivati all'idea di investire altre energie nella corsa al benessere. Da qui, la necessità di fuggire, lasciandosi alle spalle il tuono degli scarichi, il rombo dei motori - tutta la loro protesta - e idealmente senza una meta, andare all'infinito, in cerca di se stessi.

A ben guardare, anche Cabiria, sotto sotto, stava esprimendo in quella scena la sua protesta al mondo. Proprio lo stesso giorno era stata buttata a fiume dal tipo sbagliato: un amante evidentemente "promosso" a fidanzato, e che si era rivelato il solito scroccone, derubandola e quasi facendola affogare. Wanda, la cicciona buona nel film, prostituta e sua vicina di casa, le apre gli occhi quando lei ancora crede che il compagno sia fuggito per paura, vedendola in acqua; che non l'abbia buttata lui. Ma Cabiria è orgogliosa, e non si adatta facilmente all'idea di aver sbagliato, di essere stata sfruttata da uno che non la meritava..forse un motociclista, come uno di quei giovani. E invece di specchiarsi negli occhi di Wanda, quando la vede sul posto di lavoro, quella notte, si lancia tutta entusiasta e con lo sguardo brillante in quell'ode alla Seicento, in fin dei conti prendendo in giro certi furbastri come il magnaccia, che si possono permettere la macchina sfruttando le donne.
Sono forse meglio quelli che possono mettere il culo su un'automobile, Wanda? O non è pur sempre preferibile farsi abbindolare da un disgraziato, magari un motociclista, che almeno si vende sempre per quel che è, un amabile truffatore?









31 ottobre 2012

E le facce?



Surreale e grottesca  notte di Halloween…Qui  in Italia voglio dire, dove le maschera è sacra, il travestimento uno degli hobby preferiti, la barzelletta l’unico modo di piangere i nostri mali, la leggerezza la scusa universale, giustappunto, per mascherare il vuoto, la carenza di ideali, e di valori.
Sacrosanta ironia, prezioso senso dell’umorismo, senza il quale un individuo (intelligente) non vale poi molto, soprattutto oggi. Peccato che l’adozione gratuita di una festa non nazionale per quelli che a fine ottobre sono in crisi d’astinenza da carnevale, io non la capisca.
Il valore potenziale del travestimento, della mascherata, non ha bisogno di tante spiegazioni. Persino noi che andiamo in moto ne sappiamo qualcosa. L’adozione di un’uniforme per guidare – casco, guanti, tuta di pelle, stivali con relativi annessi (copriguanti, sottocasco, protezioni varie ecc) – oltre che una necessità per quelli che fanno sul serio, è una consolazione per gli altri: l’affermazione di un’identità e allo stesso tempo uno schermo, una difesa contro gli altri.  La moto stessa, oggi, è una maschera per molti: un miraggio di falsa sicurezza, o di falso benessere. Perché la moto bisogna prima di tutto sentirla nel sangue, e secondariamente saperla guidare, cosa non da tutti queli che se la comprano. OGGI, ripeto. Prima era diverso. Prima era ovvio che alla moto arrivavano solo quelli che potevano capirla e amarla, magari anche metterci le mani per ripararla o metterla a punto (quando ancora era possibile, tra l’altro). Personalmente, ho smesso di salutare quelli che mi salutano per strada. Sembrerò arrogante, ma spesso oramai mi basta vederli da lontano – la guida, l’uniforme.. – per sapere se hanno qualcosa in comune con il mio stato dinamico del momento, con la mia passione, o se sono “in maschera” da Halloween: poveri festaioli superflui, penosi.
E comunque, è “in maschera” perfino l’impiegato di banca, col suo completo firmato e la cravatta inguardabile, e la donna manager, che nonostante possa mancare del physique du role necessario, non trascura di portare gonne sopra il ginocchio e tacchi da maliarda per mascherare la propria insicurezza, inammissibile in questa società triste.  E dunque: dai, mettiamo una maschera sopra la maschera, e facciamo festa, che tutto andrà bene.
Ho pensato: quando il cinema nacque era privo di suono. Muto, si chiamava. Molto rapidamente scomparve la gestualità eccessiva, i volti eccessivamente drammatici a sostenere didascalie prevedibili, e al suo posto, la maturazione di un’arte che dall’inizio è andata di corsa come la storia della motocicletta, comparve il cinema muto degli anni d’oro. TUTTO si poteva dire, col corpo, e con lo sguardo. Poche didascalie, le parole erano un sovrappiù. La persona era un essere comunicante dal profondo, e anche quando mentiva sotto le spoglie d’attore, in un certo senso pronunciava verità universali: amore, amicizia, paura, coraggio, allegria. Non a caso, l’avvento del sonoro vide niente di meno che lo stesso Chaplin risolutamente contrario. La parola era considerata una regressione, l’attore “parlante” faceva ridere. Poco dopo, anche questa barriera fu brillantemente superata dai maestri. Gli attori iniziarono a saper parlare, ma la tecnica cinematografica imparò a sottolineare tanto il volto quanto la recitazione.
Ma guardiamo la realtà, oggi: dove sono i volti? Il cinema muto ha fatto un unico coraggiosissimo tentativo di rinascere nel 2000, con il film THE ARTIST di Hazanavicius, un autentico capolavoro, che ha confermato la capacità che I VOLTI possano dire ogni cosa e che noi possiamo comprenderli, alla faccia della modernità, che ha visto la gente perdere gradualmente la facoltà di comunicare con la propria espressività.
THE ARTIST

Si preferisce farlo attraverso la tecnologia, oggi:  telefonini, computer e rispettivi derivati, è il progresso, già. Indubbiamente se ne possono ricavare vantaggi notevoli ma la MASCHERA, a questo punto, è la macchina che ci tiene isolati. Protetti, e felici anche, stando all’impressione che mi dà, in generale, lo sterile botta e risposta cui istiga Facebook . Comunicazione? Sì, un brusio enorme, a prima vista. In realtà, è il SILENZIO; incomunicabilità dovuta proprio alla distanza o alla mancanza di tempo, un tema che ho già trattato. Se solo si potessero vedere quei volti mentre scrivono...
E invece, non solo si sono perse le facce, ma si è persa anche la facoltà di pronunciare frasi che meritino d’essere ricordate. Dialoghi che ci svelano, o in cui  dall’esterno ci si immedesima, maturando sulla nostra propria condizione.
Un’unica cosa è rimasta, almeno personalmente: il monologo interiore. Favorito dalla maschera del casco che contiene non solo il mio cervello ma gran parte delle mie emozioni. Frammenti di idee e mezze frasi che a questo pùnto, non sarò più capace di pronunciare  a nessuno senza perdere l’emotività favorita dal mezzo, dal momento. La solitudine è lo stadio creativo per eccellenza, da sempre, ma oggi è anche la condizione cui ci obbligano le risorse della tecnologia. E la paura, di non saper più ritrovare la persona vera dietro i suoi vari “strati” sorridenti e multicolori.


È l’unica cosa che posso augurare a streghe, streghette e ad altri inermi che anche stasera metteranno una maschera sulla maschera (la festa non si resiste, e c’è chi si traveste già da una settimana). Che sotto sotto, conservino qualche pensiero intelligente, solo per loro.

14 ottobre 2012

A TUTTO GAS!!

Per andare oltre il silenzio e l'ipocrisia.
Le moto e il cinema come soggetto di un libro vedranno una luce migliore, sotto una qualche forma (e-book, magari?) e in un qualche diverso linguaggio (non in italiano). Prossimamente. Perché così dev'essere.

Chi l'ha detto che la risposta a una proposta - di collaborazione, pubblicazione, traduzione, ecc - debba essere una non-risposta?? Chi ha detto che dobbiamo piegarci alla frustrazione causata dal SILENZIO dopo centinaia di invii dove, con serietà, si offrono le proprie capacità ed esperienze professionali? E chi ha detto che la mancanza di TEMPO debba essere la giustificazione universale?

a tutto gas.....
Peggio per loro, per chi si è creato una vita senza tempo disponibile. Italiani principalmente, ma anche i francesi, che ho sperimentato nell'ultimo periodo. Gli proponi na pubblicazione. Silenzio; gliela riproponi gentilmente. Silenzio; ci riprovi (così mi ha consigliato un'amica che vive a Parigi. Mi ha detto: "Con i francesi devi insistere, sennò non rispondono." Bel modo di prendere contatto, no? Facendo la rompicoglioni).

Alla fine ho ricevuto due o tre risposte (negative) scritte secondo formule formali. E vabbè. Tempo doppiamente sprecato, e anch'io non è che ne abbia da buttare: ma faccio del mio meglio per non lasciare, da parte mia, nessuno senza almeno una parola, che sia di conforto, di spiegazione, di scusa, quando richiesta. O un parere professionale. Visto che TUTTI se lo meritano indistintamente.

In Italia, non solo gli editori non si degnano di rispondere; neanche le redazioni delle radio più illuminate, per esempio, cui recentemente avevo proposto una rubrica culturale sulla storia delle due ruote. Non ho ricevuto nemmeno un "Non ci interessa, ma grazie comunque".
Ma cos'è questo sistema? Cosa significa, e perché gli si permette di andare avanti? Perché ci siamo abituati al silenzio, esattamente come al rumore gratuito, vomitato da gente che tiene troppo alto il volume della TV, tanto per dirne una? Con questo, ovviamente non sto pensando a rimedi drastici come far causa al maleducato di turno (mi abbasserei al suo livello, così. Non so nelle altre regioni, ma qui in Toscana sembra ci sia una predilezione per intentare cause civili contro i vicini di casa. Il poco spazio per colpa dell'Appennino a ridosso, ci rende troppo territoriali..). La tolleranza è un conto, ma la passività è un altro.
Eppure, non ho mai sentito finora, quando si parla dei giovani che cercano lavoro, una critica sul modo con cui certi datori di lavoro semplicemente NON rispondono, soprattutto di fronte a una mail. Ma la posta elettronica non è stata promossa a mezzo ufficiale anche quando si parla di lavoro? Non è anzi passata avanti ad approcci che, per l'appunto, prendono più tempo?

fuori dalle strade comuni....
C'è una maggioranza silenziosa che ritiene lecito pensare che una non-risposta equivalga a un "no, grazie". E forse può anche equivalere a un "no". Ma senza "grazie, sia chiaro, e questo equivale a una mancanza di rispetto lampante nei confronti di chiunque avanzi una proposta seria.
Le cose poi, per fortuna, provano che la mia non è solo impazienza. Non aspetto MAI inutilmente una risposta dalla Gran Bretagna, o dagli Stati Uniti. Me ne arrivano anzi prontamente, di sintetiche, formali ed efficaci, segno che c'è gente che sa come ci si comporta in ambito professionale. Non solo il "no, grazie", ma spesso anche l'augurio disinteressato, in poche parole, che mi vada meglio altrove, perché me lo merito. Poco importa se l'ultima frase possa essere segnata da tracce di educata ipocrisia. Ma è esattamente quello di cui ho bisogno nel momento in cui ricevo un rifiuto. O gli italiani non sono in grado di capirlo? O siamo una masnada di cafoni maleducati, travestiti da frenetici lavoratori ( ma dove...) che hanno come perenne scusa la mancanza di tempo per rispondere??

Poco tempo fa ho ricevuto da Londra un rifiuto che in realtà è stato uno stimolo per me, grazie al tono e alle idee che l'editore stesso ha avuto il TEMPO di espormi in una mail.
E ho deciso per il rilancio: "Due ruote e una manovella" si prepara a scindersi in due libri: uno di stampo più prettamente motociclistico (che forse mi pubblicherà lui: Rollo Turner della Panther Publishing, anche se questa per ora è utopia): basato su aneddoti, foto di scena e storie dei piloti e degli stunt-man che pilotarono le moto nei film citati. Mio braccio destro nell'operazione sarà ovviamente Costantino Frontalini, e il suo immenso bagaglio culturale da quando si è messo a realizzare le repliche delle moto apparse nei film così com'erano nei film. L'altro spunto me l'ha offerto un'americana, docente di cinema, che dopo aver letto, vagliato e criticato (in pochi giorni) il progetto che le avevo dato a mano quando ci siamo conosciute a Bologna,  ha proposto di "ri-editare" il mio libro scegliendo un punto di vista più connesso all'arte (es.: Il Futurismo, e il Dadaismo) per introdurre l'importanza del valore simbolico della moto nel cinema.
oltre la logica...Solo per divertirsi.. E sentirsi vivi.

Che gli editori italiani (e francesi) sappiano: che talvolta possono dare una mano anche negando un progetto così com'è; che possono aprire uno spiraglio facendo girare solo di poco la loro materia grigia, evidentemente e tragicamente concentrata sul marketing di quel che hanno sotto mano al momento. Anche inglesi e americani badano al marketing, forse anche più di loro!!! Ma se non altro hanno l'acume di intravedere eventuali cambiamenti di struttura che, se un testo è genericamente valido o interessante o originale, potrebbero cambiare in positivo il suo destino.

Mio altro prossimo progetto di fronte al quasi fallimento delle riviste spagnole di moto su cui scrivo (o scrivevo, visto che un formale licenziamento non c'è stato. Solo il silenzio di chi è, o troppo orgoglioso per ammettere d'essere nella merda, o ha l'acqua tanto alla gola da considerare gli altri membri della redazione uguali a zero, QUINDI: metto nel gruppo dei maleducati anche gli spagnoli). Dicevo, piuttosto che stare ad aspettare che mi richiamino, in caso di ripresa economica, per offrirmi le solite cifre ridicole e soprattutto dopo un comportamento scorretto, io e il fotografo che lavora con me abbiamo deciso di puntare in alto.

Chi ci impedisce di sognare? Nessuno, mai. Stiamo realizzando un piccolo "book": tre, quattro dei nostri migliori servizi. Grazie alla cortesia dell'amico Michael Lichter, negli USA, ho un buon intermediario per proporli. Il lavoro peggiore sarà il mio, perché dovrò tradurli e adattarli per essere inviati al più presto. NON ai francesi o agli spagnoli o agli italiani che puntualmente NON rispondono, ma a riviste americane e giapponesi, le migliori del settore. La scelta non è effetto di una sopravvalutazione del nostro lavoro ma il  fondamentale riconoscimento della nostra DIGNITA' PROFESSIONALE. Non solo non ci meritiamo attese infinite, rifiuti, né d'essere l'ultima ruota del carro, ma ciò di cui abbiamo pieno diritto è l'attenzione e la considerazione, al pari dei competitori (squali) che si ritengono, a torto, superiori.




06 settembre 2012

ONE WEEK


Altro film indipendente, mai arrivato in Italia, per quel che ne so, con cui l’America, a modo suo, “si riprende” da quella serie di film di serie b degli anni ’60 (dal ‘54, dovremmo dire, cioè da Il Selvaggio in su) che vedevano il motociclista esclusivamente in veste di ribelle, figlio di puttana, scapestrato, senza punti di riferimento nella vita a parte la propria banda su due ruote, con cui spaventare quei borghesi conservatori che andavano solo in macchina e che, in apparenza soltanto, erano un modello di perfezione. Ma dovremmo dire "il Canada", visto che il film è canadese, di un regista che si chiama Michael McGowan, che nel 2008 lo ha presentato al Festival di Toronto.
Lungi dall’essere un capolavoro, si tratta di un film comunque interessante, “diverso”, e che si svolge sul filo di una malinconia sottile, un po’ per il tema e la voce narrante, un po’ per la complicità degli spazi in cui si svolge e della luce che vi imperversa: immense distese pianeggianti e strade a perdita d’occhio su cui domina un cielo bianco e che ti fanno sentire minuscolo, o una natura potente e antica, selvaggia e immutabile, al contrario delle nostre vite mortali, irrisorie, limitate e costrette da un’infinità di regole imposte e auto-imposte.

“Una settimana” è quel che il protagonista, Ben, si concede dopo aver saputo di avere un cancro a uno stadio avanzato, e lui è quasi un ragazzo. Di fronte ai duri trattamenti che lo aspettano, e che comunque non gli garantiranno di uscirne vivo, sceglie una terapia alternativa, che gli si offre per caso mentre, sulla via del ritorno a casa dall’ospedale, è ancora confuso da quella che gli è suonata come una sentenza di morte altamente probabile, e in capo a poco tempo.
Un uomo anziano – chiaramente un ex-biker dell’età gloriosa, all’aspetto –ha tirato fuori dal suo garage un pezzo d’epoca: una Norton Commando nel ’73 (bellina...). Ben si ferma a guardarla, e l’uomo gli dice di farci un giro: lui la vende perché ormai non ci va più. La decisione avviene in un attimo, provocata ulteriormente da una scritta sul bordo srotolabile di uno di quei grossi bicchieroni di cartone in cui là, si prende da bere: “Go West Young Man”, è la spinta definitiva.
Durante il pranzo di compleanno di suo padre, Ben rende nota la sua situazione alla fidanzata Samantha, e deve difendersi per un po', contro l’ insistenza di lei perché non parta come un folle, e “si consegni” prima possibile alla medicina, come un condannato...

Il viaggio, come ogni viaggio in sella a una moto, è l’occasione per fare il punto sulla propria vita. Ben ha diversi dubbi da chiarire a se stesso, primo tra tutti, l’amore per Samantha, che tra le altre cose, odia le moto...Poi ripensa al proprio lavoro di insegnante e al proprio sogno di diventare uno scrittore, ora minato, come il resto, da un imprevisto che sembra insuperabile. Capisce che quel che lo sta uccidendo più del cancro (o forse ciò che lo ha causato) è una vita normale, senza aspettative particolari, povera di emozioni. Decide di recuperare all'istante. E si concentra a vivere la sua avventura come se fosse l’ultima ma anche la prima di una lunga serie, perché non si sa mai.

La Norton-terapia dà i suoi frutti. Non solo il confronto con la natura risulta stimolante, ma soprattutto il  miracolo degli incontri casuali con uomini e donne, con le loro piccole storie, testimonanze importanti, o solo differenti modi di pensare che via via lo scuotono, gli aprono strade.
C’è qualche momento di crisi: quando la moto lo abbandona..ma gliela ripara una donna (!) per una di quelle casualità eccezionali che non si ripetono più di una volta nella vita; o quando ha un banale incidente, una scivolata che potrebbe vederlo morto e che invece gli fa apprezzare più che mai il fatto d’esser vivo. E dopo aver maturato la decisione di separarsi dalla fidanzata, quando si perde in un bosco e ha un mancamento che forse prelude  alla fase di debolezza e malessere che lo porterà sulla via del ritorno..ma lo soccorre una ragazza che sembra uscita da una fiaba, e con cui passa una delle notti più belle della sua vita.

A Toronto, Ben ci torna senza Norton purtroppo, dopo che un autista distratto gliel’ha fatta a pezzi con una manovra maldestra per uscire da un parcheggio.
Ben assimila ogni momento, e apprende, matura, non si ferma davanti a niente, finché può. Il viaggio è un’evoluzione che lo lascia tanto “nuovo” quanto esausto, disposto a tornare dalla famiglia che lo aspetta per combattere insieme.

La fine ci lascia in sospeso. Ad andare avanti è il sogno, il che lascia sperare bene, forse, anche sulla vita reale di Ben: il suo libro è appena uscito, si chiama “One week”. In copertina c’è una foto sua con l’amica Norton.

Unico difetto evidente del film, a mio parere, anche se forse calcolato, è che l’attore ha inequivocabilmente un viso “da insegnante”, un po’ deluso dalla vita, e con gli occhialini da guida che si è procurato per il casco aperto, e una certa rigidità della posizione con cui guida, non fa un grande effetto. Del resto, forse, l’intenzione della regia era proprio quella: di mettere in sella uno che non c’era mai stato prima, e di farlo scendere cambiato in un’altra persona, dentro. Le moto, si sa, – soprattutto le classiche che hanno più carattere - fanno di questi miracoli.

29 agosto 2012

Senza mai perdere il filo



Foto: Rebecca Heyl
Oggi vorrei parlare di un’amica. Di una donna prima di tutto, che tanti anni fa, ormai, ho scoperto grazie all’”Impatience” che in quel momento già mi stava portando a più profonde riflessioni intorno alla moto, e che è diventata per me una specie di doppio potenziale, un modello da raggiungere, “accessibile” e terreno dopo che lei si è lasciata avvicinare in maniera spontanea e generosa.
Un compleanno del lontano 1997, o ‘98, un regalo: un libro di quelli che passano in sordina qui in Italia, pubblicato per chissà quale strano caso visto che oggi nessuno gli darebbe credito: “Il veicolo perfetto” è finora (a parte il mio saggio, che non fa testo, essendo una pubblicazione passata praticamente inosservata, in Italia) l’unico libro sulla motocicletta scritto da una donna, Melissa Holbrook Pierson.
Attraverso la propria sensibilità, che non occorrerebbe nemmeno sottolineare “diversa” da quella maschile, e una mano indubbia da scrittrice, Melissa ripercorre la storia della moto come invenzione folle dell’uomo, da un punto di vista finalmente storico e culturale, alleggerendo il tono della narrazione con la sua propria storia da quando, come accade per molte di noi, incontra la moto del cuore e impara a guidarla e a conoscerla e ad amarla grazie al/ai propri fidanzati.
Il libro mi piacque moltissimo, e notai soprattutto i numerosi riferimenti cinematografici che Melissa citava. Mi immedesimai nell’opera che aveva scritto per come l’aveva scritta, al punto da volerla conoscere. Ed ebbi l’ardire (e la fortuna) di ottenere il suo indirizzo dall’editore, di scriverle, negli Stati Uniti...e di ricevere a breve una grande busta pluri-affrancata (che conservo), e che conteveva una sua lettera e un catalogo della Wildhorse Press, dove Melissa mi indicava un altro libro che avrebbe potuto interessarmi. Era, quella prima lettera, cortese e curiosa nei miei confronti: entrambe avevamo studiato cinema all’università, entrambe eravamo donne, dotate di un’indubbia femminilità – non lesbiche, per intendersi, visto che l’approccio cambia – e motocicliste. In un certo senso ci sentimmo – io almeno - l'una il corrispettivo dell'altra, nonostante i dieci anni di differenza che ci dividevano. Fu un avvicinamento emotivo, pieno di rispetto, e che sottintendeva la nascita di un legame imperituro, seppur senza pretese di assiduità o di rispecchiamento eccessivo.
Nella prima versione del mio saggio utilizzo diverse citazioni dal libro di Melissa: le sue ricerche puntuali e dettagliate mi facilitarono il lavoro, e il suo supporto a distanza mi rassicurava. Stavo facendo la cosa giusta....anche se nel paese sbagliato.
“The perfect vehicle” infatti è diventato un cult negli Stati Uniti, ma là, l’atteggiamento della gente (più “indifesa” alle novità, meno cinica e prevenuta per una sorta di candore naturale, e disposta a stupirsi anche degli aspetti della vita apparentemente marginali) e soprattutto la quantità e varietà, disseminata su uno spazio sterminato rispetto al nostro, sembra garantire una nicchia di pubblico a ciascun settore. Cosa che qui non è. Dall’Italia  - lo so per certo perché mi chiese gentilmente di informarmene – non le arrivarono mai neanche i diritti d’autore per il libro tradotto....
Foto: Rebecca Heyl
Nel 2000, un’altra amica che andò a New York mi fece il favore di incontrarla, e di scattarle una foto. Mi piacque, mi sembrò simpatica e alla mano, esattamente come quando ci scrivevamo via mail. E aspettava un bambino, cosa che all’epoca ci allontanava parecchio! In effetti per più di un aspetto: la nascita di Raphael coincise per Melissa con l’abbandono della moto per circa undici anni: un periodo "oscuro" in un certo senso, trascorso a un diverso ritmo, e di cui, in parte, parla nel suo ultimo libro, che riprende la qualità e l’argomento del primo, purtroppo finora disponibile solo in inglese: "The Man who would stop at nothing".
La causa per cui rinunciò alla sua adorata Guzzi non fu solo quella “classica” del terrorismo psicologico fatto dai parenti su una madre che non può più permettersi di rischiare la propria vita, ma un’altra anche più semplice: il compagno NON era un motociclista nella vita: non la spinse a tenersi la moto o, al limite, a ricominciare ad andarci dopo poco tempo. Al "veicolo perfetto" seguirono altri libri, in quegli anni, ma di diverso tema (non sui bambini!), e che neanche lontanamente ottennero il riconoscimento del primo.
Nel 2006 ho finalmente conosciuto Melissa, in un caffé all’aperto, dietro uno splendido mercato nel quartiere di Brooklyn. Ci parlammo, mentre spalmava del miele su una fetta di pane caldo per Raphael, lì con suo padre (che ricordo a malapena: un’omone schivo, di origine belga, che se ne rimase per i fatti suoi e che non m’ispirò particolare simpatia).
Mi stupii, allora, di provare lo stesso senso di vicinanza emotiva verso di lei, nonostante le nostre storie fossero, a quel punto, molto diverse. Ma era un fatto: Melissa continuava a rappresentare per me un modello, quel che io sarei stata dopo qualche anno, alla sua età in quel momento: scrittrice, motociclista (quell’”ex” non mi convinceva molto, e avevo ragione), madre. Non pensavo di avere figli nel 2007, lo giuro! ma evidentemente una parte inconscia di me sì. Quasi a ricalcare un ideale romantico, che covavo dentro come un segreto. Quel che non sapevo, magari, era che sarei rimasta inedita più a lungo di lei! Ma questo, purtroppo, non c’entra con me, piuttosto con l’epoca e il luogo dove sono nata e dove, finora, ho scelto di vivere.
Nel 2008 l’ho rivista, e molte cose erano cambiate: divorziata, andammo a trovare lei e suo figlio con la nostra RoadKing presa a noleggio a Boston, nella casa che aveva affittato in mezzo a un bosco sulle Catskill Mountains, un posto bellissimo. Ecco, un’altra cosa ancora ci accomuna: la scelta di vivere in un ambiente selvaggio, spostandosi con i propri mezzi verso la città solo quando necessario. Posso dire di averla vista (e fotografata) in uno dei suoi momenti peggiori: ferita a morte, abbandonata, confusa. Le dissi, ricordo, che avrebbe solo dovuto ricomprarsi una moto. Cosa che ha fatto, successivamente, per riprendere il filo della propria storia: su due ruote. Ci sono cose che non potranno mai essere cancellate dal nostro DNA, come un codice genetico secondario.
Nel 2009 ci siamo riviste ancora,in un tardo pomeriggio gelido, in un diner a mezza strada tra casa sua e il nostro alloggio a Manchester, CT. Era finalmente rinata, positiva e con la maturità di una cinquantenne, il che la rendeva ancora più bella. Volle farmi un’intervista per un giornaletto locale di BMWisti – tanto per contribuire al mio narcisismo latente – ma la cosa migliore tra noi fu di poter parlare per la prima volta, e di persona, la stessa lingua, seppur zoppicando tra le proprie.
Ora l'aggiorno costantemente sulle mie novità, che sono poi i miei sforzi per pubblicare il mio libro all'estero. Come al solito, quando mi può aiutare in qualche modo, lo fa, senza riserve. Io le mando foto della mia bambina, lei me ne manda dei suoi ultimi viaggi in sella alla moto, e di suo figlio Raphael, che le somiglia.

19 agosto 2012

To be...or not to be?



Premetto: questo è un discorso che avrei tanto voluto fare a voce, a mio fratello. Purtroppo - e mio malgrado - in questo momento ci separano anni luce di distanza, e quindi niente. Tuttavia, credo che il tema, o la scusa, possa essere di un certo interesse per motociclisti e non, e questo è il motivo per cui ne scrivo.
Anni di scrittura mi hanno fatto prestare sempre più viva attenzione alle parole. È importante come si usano le parole, in che circostanza e per quale scopo. Se non altro per non rischiare il fraintendimento.
Ora: l’altra mattina ho fatto la solita scappata sul Passo del Muraglione con la mia GS: nessuno in strada, aria fresca che snebbia la mente, senso di conquista della cima dopo una sfilza di belle curve (troppo belle per farle solo una volta ogni tanto..ma crescerà pure, ‘sta bambina mia..). Insomma: un buon quarto d’ora in salita, e un altrettanto buon quarto d’ora in discesa, un bel modo di iniziare la giornata.
Sono entrata nel bar solo per vedere l’ora: c’è una bella parete di foto con dedica a Giovanni da parte di motociclisti e piloti, e ho riconosciuto subito il logo e la mano di mio fratello nel piccolo manifesto di Curve & Tornanti (scuola federale di guida sicura su strada e fuoristrada, www.curveetornanti.it ) in cui si invitano gli interessati alla “EXIBITION” che si terrà proprio sul passo il 15-16 settembre prossimi.
...Exibition?
Theresa Wallace, istruttrice...
 Sì, mi pare di ricordare che ce ne siano state altre, gli anni passati, per ricominciare, diciamo così, l’”anno accademico” dei corsisti che si iscrivono alle lezioni di teoria e pratica su strada per imparare a guidare bene le loro moto. Ma perché questo termine? Nel migliore dei casi, e sottilineo, il migliore, immagino che si preveda qualche buon numero di trial o di fuoristrada forse, su un fetucciato improvvisato proprio lì, o nei dintorni; qualche spettacolo di bella guida, insomma, fatto dagli stessi professionisti che poi danno il meglio di sé come istruttori. Eppure, più ci penso e più dubito che si tratti solo di questo.
In stretto gergo motociclistico, qualsiasi “esibizione”, solitamente al’interno di fiere e circuiti, è prima di tutto quella di tette e culi di qualche bella ragazzotta, per attirare la marmaglia sotto il denominatore comune di “moto e donne” come strumenti dominabili. Sempre la solita pappa.
Se la mia è prevenzione, come si suol dire, “peste mi colga”...va detto però che, in tal caso, la colpa principale è da attribuire all’uso della parola incriminata, “exhibition”. Profondamente contraddittoria con le intenzioni assolutamente “nobili” di qualcuno che intende offrire i propri insegnamenti e la propria esperienza al dilettante (o all’umile, che si mette a disposizione per questo). Un istruttore motivato non ha alcun bisogno di ESIBIRSI, quanto semmai di “mostrare” e di  “trasmettere” quello che sa (e che, tra parentesi, ha anche lui imparato da qualcuno). In tutta umiltà, lui stesso..perché mica è nato con la scienza infusa!
Dico questo perché conosco i miei polli. E so che, nonostante la qualità indubbia di questi corsi e la bontà delle intenzioni iniziali, quella di certi motociclisti è innanzitutto una parata; l’esibizione, senza mezzi termini, del proprio presupposto (o reale) talento. Una caratteristica, senza dire un difetto per forza, prettamente maschile in quest’ambiente: goliardico dai tempi dei tempi, pieno di esempi di temerarietà e di vero coraggio, di quell’atmosfera “da pacca sulla spalla”, che se da un lato sembra solo ammirazione per il compagno, rispecchiamento del proprio essere “un vero maschio”, dall’altro svela una neanche troppo nascosta inclinazione omosessuale. Con questo: anche le donne hanno le loro patologie, in questo senso.
Ma la cosa peggiore è che se la vocazione primaria dell’insegnante/istruttore è la propria esibizione, la “missione” di istruire (che altro non è, l’insegnamento di qualsiasi disciplina, vista la responsabilità che comporta) è inevitabilmente sporca di protagonismo, e scarsa di rispetto per l’individuo, che appare in partenza un inferiore,  un inetto, schiacciato dal peso della propria ignoranza o goffaggine.
La passione diventa lavoro, e il lavoro diventa presto una frustrazione così, perché fatto in compagnia di individui (gli “studenti”) di cui, in sostanza, importa poco. Basta che paghino a fine corso, no? Che appaiano un po’ innamorati del carisma degli insegnanti (l’esibizione senza applauso  viene presto a noia!!), quanto basta magari per iscriversi una seconda volta; e che alla fine, incorrano in meno incidenti che in passato. E il gioco è fatto.
...perché non "raduno"? - Foto Tommaso Pini
Se ancora non si è capito, la vista di questa parola, “Exibition” mi ha fatto montare i nervi. È che  in sé non mi piace, estrapolata dal suo contesto teatrale, e soprattutto in quest’ambito. E poi perché in inglese?? Ci si sta riferendo, per caso, a un pubblico di smanettoni britannici?? O c’è bisogno di una prova di pronuncia per essere ammessi, all’ingresso?
Non era meglio, più semplicemente , qualcosa come “Festa”,  “Evento” o “Raduno”, quest’ultimo, tra l’altro, sempre dolcemente rievocativo quando si parla di due ruote con un po’ d’anima?
Vorrei sorvolare, infine, sulla presenza delle donne in tanga, visto che la mia è solo un’ipotesi, e magari mi sbaglio. Ma una cosa vorrei dirla. Chi spaccia la propria professione per “nobile”, dovrebbe sfidare il mercato, e avere il coraggio di  non andar dietro allo stile della maggioranza. In tutte le manifestazioni motociclistiche attuali ci sono le hostess in succinti costumini o con l’ombrellino e i tacchi a spillo, non sono certo nata ieri. Il fatto è che, in fin dei conti, si dà il presupposto che ci si stia rivolgendo a una massa di bufali...Ma allora....con che coraggio poi, in questo caso, si pretende che abbassino le orecchie  e vengano buoni buoni ad imparare a guidare? Non sarebbe più coerente esporre un diverso criterio, un approccio originale e un po’ più elegante al percorso che vuole arrivare a una guida pulita? Personalmente non vedo nessun rispetto qui, né per questi “studenti” potenziali, che non dovrebbero aver bisogno di esche simili, trite e ritrite, né per le donne in generale, sì: il mondo italiano della moto (eccetto pochissimi illuminati) di fatto “ammette”, o “tollera” la presenza di donne motocicliste (l’ho già scritto: insegnare loro, in questo senso, è un’altra forma di sottomissione, nient’altro).  E di questa arroganza ne ho piene le scatole.
Perché poi la realtà è questa: che il rispetto verso di noi è di fatto minore di quello che questi uomini attribuiscono alle proprie moto.