STORIE DAL MIO GARAGE

Cronache (vere, o ispirate dal vizio di scrivere) di una motociclista italiana emigrata dove i locali, se possono, se ne vanno altrove.


21 settembre 2011

Disavventure editoriali o "La moto"..ma non solo.

A questo punto, per fortuna, ricordo a malapena la sua faccia. E pensare che, quando lo conobbi, fin troppo carica di aspettative, rappresentava per me una specie di salvezza: finalmente avevo trovato qualcuno che osava pubblicare il mio libro, "Due ruote e una manovella", anche se era destinato almeno potenzialmente a una minoranza, a un'élite di persone appassionate sia di cinema che di moto, un binomio improbabile (se di per se stesse le due categorie hanno un buon numero di appassionati, messe insieme a prima vista sembrano inconciliabili); un editore coraggioso dunque,mosso, tra l'altro, dalla propria passione di motociclista (non mi chiesi quanto autentica fosse; del resto, ognuno ha il pieno diritto di viversi certe cose a modo suo).
Ricordo che, scherzando, mi rimproverò di aver deciso per un sottotitolo di lunghezza immane, che lo avrebbe messo a dura prova per la composizione grafica della copertina. Accolsi la critica, ma era stata mia cura mettere in chiaro, fin dall'inizio, le intenzioni di quella mia opera tanto ispirata, che non volevo cadesse in mano né di lettori sbagliati né, peggio, impreparati.
Il progetto era partito, incoscientemente e forse troppo ambiziosamente, come sceneggiatura di un documentario che raccogliesse spezzoni di cinema principalmene europeo il cui valore simbolico della moto, ora poetico, sportivo, "fuggitivo", anarchico, ecc., rappresentasse in sé un frammento di cultura di un certo paese in un determinato momento della storia. Una voce fuori campo avrebbe illustrato il significato di cui la motocicletta era portatrice in ciascun esempio, riscattandone così l'importanza in quanto elemento storico facente parte della cultura del XX secolo, non meno della pittura, della musica o della letteratura di quei tempi. Detti spezzoni sarebbero poi stati affiancati da altri più universalmente noti di quella cinematografia motociclistica - concentrata negli anni '60-'70 - oggi datata e che ha sempre, oltre che riassunto, impoverito la visione che la gente ha avuto della motocicletta.
Venni poi a sapere di aver buttato giù la bozza di un progetto praticamente senza prezzo - se fossi andata a toccare anche solo pochi secondi di cinema americano o anche felliniano - che nessun mecenate seppur motivato profondamente avrebbe mai finanziato. Nel mondo del cinema, poi, di gente illuminata riguardo alle moto ce n'è veramente pochissima...
Ripiegato dunque il mio "sogno" in forma di saggio, l'idea e soprattutto il taglio restavano comunque piuttosto specifici. Per questo mi ritenni fortunatissima quando, grazie all'ex -fidanzato di un'amica motociclista, di Roma, m'imbattei in questo piccolo editore che fu entusiasta di pubblicarlo a sue spese  (io, da me, non avrei potuto, soprattutto a quell'epoca,  permettermi una spesa simile).
Purtroppo, l'entusiasmo iniziale era destinato a spegnersi, a poco a poco.
Passarono dieci anni prima della pubblicazione, nel 2007,anche se di questo, alla fine, non posso lamentarmi neanche tanto, avendone sempre approfittato per aggiornare il mio testo, via via, grazie a nuovi esempi e a nuove ricerche, e per migliorarlo anche stilisticamente - dieci anni in giovane età rappresentano una vita nella carriera di uno scrittore in erba. Tuttora, dopo altri 4, se vado a rileggerlo mi suona inevitabilmente vecchio, da rifare.
No, la delusione maggiore è stata una pubblicazione tardiva resa forzata, alla fine, per vie quasi legali, con una lettera semi-minatoria che redasse per me un avvocato indicatomi da un'amica. Ma non ne potevo più. Conseguentemente, però, il libro è saltato fuori come un bambino non desiderato dalla pancia di un editore da tempo non più ispirato per mere ragioni commerciali. Non c'è stata nessuna presentazione ufficiale, né a Roma né altrove - nonostante svariate promesse che mi hanno amareggiato le nottate -. Idem per la distribuzione. E oggi è come se "Due ruote .." non esistesse neppure, nonostante il contratto mi vincoli per 10 anni. Potrei di nuovo ricorrere a un avvocato? Certamente sì, ma rifuggo l'idea per carattere: mi stomaca questo tipo di procedure tra esseri umani che, in teoria, dovrebbero poter chiarirsi a voce. So che si tratta di un'utopia, ma preferisco restare stupida, a riguardo, che non sporcarmi le mani con qualsiasi forma di guerra ripugnante.
Ciò non toglie che io continui a credere profondamente nell'interesse della mia opera, che affronta  il tema della storia e della cultura soprattutto europea  da un punto di vista sempre sottovalutato. Purtroppo, il problema è doverne convincere gli altri.
Per ora ne sto proponendo una riscrittura negli Stati Uniti, dopo aver partecipato al I Congresso Internazionale su Moto e Cultura, in Colorado lo scorso giugno , promosso dall'International Journal of Motorcycle Studies. Allo stesso tempo sto valutando l'idea di sottoporlo anche a editori inglesi e francesi. Di fronte ai rifiuti, nel frattempo, non mollo, perché credo che chi la dura la vince.

13 settembre 2011

La femme (1)

Ho chiamato mia figlia Matilde in onore a un personaggio che mi è sempre rimasto nel cuore: quella Matilde interpretata da Anna Galiena nel film di Leconte del 1990, "Il marito della parrucchiera". D'altra parte anche il compagno di lei, il narratore della storia nel film, era ed è uno dei miei attori preferiti: Jean Rochefort (tanto più come marito della parrucchiera, idealista per vocazione, voyeur instancabile di un'unico soggetto, nonché appassionato di musica araba) è un uomo affascinante, senza neanche togliergli un anno, e nonostante un indubbio e inevitabile francesismo nei modi, un po' arrogante e un po' freddo, come sembra la maggior parte dei francesi.
Matilde costituisce un'eccezione nell'universo femminile dei prototipi da film: è bellissima, di una morbidezza sensuale un po' anni 50, irresistibile; non è un personaggio malvagio né idiota, secondo due dei classici canoni delle belle cinematografiche; non è stupida né esageratamente intelligente, né una donna in carriera né una femmina indifesa per qualche ragione oscura, né un'anima persa. Vive semplicemente in un mondo suo, indifferente alla propria bellezza come strumento (se non per sedurre il suo Antoine, nel quotidiano della loro convivenza tra le quattro pareti del negozietto di lei).
Non si può dire che abbia avuto grandi aspirazioni nella vita: fa la parrucchiera da uomo, in una località anonima di provincia, che si indovina noiosa e immobile; legge certe rivistucole da sala d'aspetto, appunto, ossia si presume che non abbia nemmeno un briciolo di certa cultura, seppur da autodidatta, in nulla inferiore a quella racimolata dopo anni di studi regolari.
Eppure, la coerenza con cui vive è qualcosa di straordinario: tutto quello che vuole è restare ai margini, coi propri sogni, forse con un passato da dimenticare, in una quotidianità uniforme fatta di toccate e fughe con i clienti abituali, ciò che costituisce la sua parte potremmo dire mondana, sociale. Racchiusa e protetta dai pochi metri quadri del negozio come dal guscio di una chiocciola (anche il suo appartamentino è al piano di sopra) svolge con serenità  il proprio ruolo di parrucchiera, moglie, amante, amica di Antoine. Non esce, non viaggia; non sembra curiosa di provare nulla che non abbia già provato ed evidentemente scartato come superfluo al proprio benessere. La sua indifferenza mi faceva rabbia, all'inizio, come se stesse buttando la sua vita. Eppure, la concentrazione con cui Matilde ama Antoine momento dopo momento, senza distrazioni, ne fa una donna capace di vivere il presente, senza noie, dubbi, stanchezze e frustrazioni, quelle inquietudini che rendono la maggior parte della gente insoddisfatta della propria vita. In fondo, l'universo di Matilde ci comunica che basta poco per essere felice. Lei almeno è contenta, e allo stesso tempo non s'illude, assaporando la propria relazione (nata per caso, su cui ha riflettuto un'ora prima d'imbarcarvisi), certa che ogni singolo momento non tornerà, ansiosa solo di vivere quello successivo.
Al suo suicidio finale ho reagito, negli anni, in maniera molteplice. All'inizio la sua rinuncia mi è sembrata vigliacca, ma questo, poi, è un luogo comune. Quindi l'ho considerata infantile, una romanticona senza i piedi per terra, un'immatura...Di recente, però, ho smesso di giudicarla, quando il suo atto mi è sembrato ancora una volta la dimostrazione che ha in mano la propria vita fino alla fine: ne dispone coscientemente, e che sbagli o no, non le sfugge di mano, la domina, è la sua.
È anche lei una vittima dell'impazienza: temendo che il futuro possa in qualche modo rovinare la perfezione del proprio amore, accelera la propria fine, purché ne resti - forse stupidamente, nel proprio ricordo ma soprattutto in quello di Antoine - un'immagine priva di grinze, di ammaccamenti o di delusioni. Matilde si accontenta di andarsene portando con sé le più belle immagini, consapevole che un attimo dopo morta, anche quelle svaniranno nel nulla, inghiottite dal vortice d'acqua in cui si getta senza esitare. Giusto alla fine, dunque, le scopriamo perfino un difetto in qualche modo affine alla sua professione: un eccesso di estetismo nel voler lasciare a tutti i costi la propria relazione al suo apice pur di conservarla perfetta agli occhi degli altri.
Il suo sacrificio, nel film, sembra un suggerimento alle donne che stanno guardando: non viviamo le nostre relazioni lasciandole diventare abitudine o peggio, non perdiamo mai quella certa aria di mistero che alimenta il desiderio anche dopo anni, né quella prudenza nei modi che porta al rispetto dell'altro né soprattutto il buon gusto di non farci mai vedere al peggio, polemiche, brontolone, sciatte o malvestite (Matilde è perfetta anche quando indossa un semplice abitino a grembiule).
Nonostante una certa malinconia che la caratterizza come un lato del carattere (sempre preferibile, personalmente, a un carattere sempre gaio, che fa sospettare in un po' di idiozia o di superficialità), Matilde è un personaggio compiuto, una donna da ammirare, in un certo senso. E da amare, naturalmente.

05 settembre 2011

La montaigne

Posso dire di non aver mai vissuto la mia città veramente anche quando ci abitavo. L'ho sempre utilizzata più come base da cui partire per destinazioni selvagge, verdi.
Le quattro pareti di una stanza o lo spazio obbligato dei vari appartamenti in cui ho vissuto sono sempre stati come una parentesi - dove studiare, o preparare una cena, dove ricevere amici o vivere momenti d'intimità col mio compagno del momento.
In un certo senso nemmeno m’appartiene, Firenze: anche le vie del centro, pur suonandomi tutte all’orecchio, non so collocarle sul momento; sarà perché forse ho vissuto per vent’anni in periferia prima che i miei andassero a vivere in campagna e la campagna, comunque, l’ho sempre vissuta fin da piccola, quando andavamo nella nostra casa i fine settimana e durante l’estate.
Il mio momento più “metropolitano”, coinciso con gli anni di università, un lavoro in via del Proconsolo, dietro il Duomo, e un fidanzato greco che amava Firenze, ha coinciso anche con la mia prima fase da motociclista. E la vivevo con grande entusiasmo: l’emozione di avere due ruote sotto il sedere, un cambio a pedale e una leva della frizione a mano (la coordinazione mano/piede dà un certo senso di compiutezza, e le marce ben inserite ritmano il battito cardiaco, quasi, e il respiro) mi facevano guardare un po’ dall’alto tutto il resto, la città; il traffico, soprattutto, che frenava il mio impulso dinamico, e per questo l’emozione più grande era uscire da quel dedalo intricato di viuzze, lanciarmi verso i profili dolci delle colline, spalmandomi sulla rotondità delle prime curve della Via Bolognese, che ti portano fuori in venti minuti verso l’Appennino.
Ero polemica verso i quarti d’ora accademici, verso certi profili di universitari nati vecchi, insomma, anche la vita tra quelle pareti che in teoria avrebbe dovuto “liberarmi” altrettanto, attraverso certi corsi indimenticabili – di storia della musica, di letteratura, di cinema – alla fine mi stava stretta. Mi sembrava di comprendere la psicologia di certi scrittori, la potenza di certe arie musicali, e perfino la bellezza della mia città quando si gira per il centro di notte, solo quando montavo in moto, sola, e andavo.
La solitudine va di pari passo con la montagna (leggi: con l’ambiente selvaggio, con la natura). Si tratta di una dimensione astratta che nobilita il pensiero o meglio, fa delle molteplici sensazioni a malapena percepite internamente durante il giorno, Pensiero. Muovendosi lungo un nastro sinuoso di strada circondato dalle rocce o dal verde, certe idee si concretizzano, prendono corpo, diventano pura logica; passano dall’essere pura teoria a filosofia, a ragion d’essere secondo certi canoni che poi diventeranno la nostra stessa coerenza, i pochi punti fermi nella vita da cui mai ci allontaneremo in maniera inconscia, automatica.
È vero che la potenza evocativa del movimento dinamico e il contatto con l’aria sferzante, con gli odori del bosco e con la luce che rifinisce i colori, i contorni, uniti alla solitudine del viaggio, favoriscono fantasie e creazioni immaginarie, interi processi di riflessione, potremmo dire, sopra le righe, che poi si sgonfiano come palloni quando si smonta dalla moto e si spegne il motore. Ma è la montagna che, in fondo, rendendoli possibili ci aiuta a mirare sempre alto, a conservare quella parte di idealismo e romanticismo che a mio avviso risulta utilissima per mantenersi a margine della vita “vera”, non perché non si viva, ma solo perché restandone fuori, ci salviamo dalla malattia che invecchia il resto della gente. I sogni sono gli anticorpi più potenti di un essere umano, e quel che lo mantiene giovane. Ora, se la motocicletta tende ad esaltare la solitudine e a dirigerci verso la natura selvagga, verso strade poco trafficate e curve ben disegnate, la montagna, sua destinazione ideale, finisce per essere il luogo che permette al sogno di svolgersi nella mente del pilota, senza freni.
Parlando di freni, solo quelli mentali è ammesso non averli, e comunque il pensiero deve dipanarsi lungo un binario parallelo a quello della concentrazione, anche questa è un’abilità che si forma con l’esperienza: sia chiaro che non stiamo parlando, qui, di quegli smanettoni senza stile e senza talento, che si lanciano sui passi i fine settimana e sperano di sopravvivere grazie alle protezioni della tuta di pelle, senza saper guidare...
La montagna pretende, obbliga, forza all’intelligenza, tanto più quando si guida  per le sue strade. Ê una sfida continua, prevedere che un daino attraversi la strada all’improvviso, disegnare la traiettoria senza uscire dalla linea bianca di mezzeria nemmeno con l’ombra del corpo inclinato né avvicinarsi troppo al bordo, dove c’è sporco e ghiaia.
La montagna ci obbliga a guadagnare la saggezza, e l’equilibrio, una forma di ragionare tipica dei filosofi o quanto meno dei pensatori, che arrivano alla meta grazie al Metodo del loro ragionare. Lo sguardo che ci sentiamo addosso deve essere incisivo, concentrato e mobile (per guardare avanti e anticipare il pericolo, e ai bordi per evitare ogni intromissione improvvisa); il corpo intero partecipe alla guida, le braccia flesse, le gambe flesse, il piede appoggiato in punta, il busto in avanti, pronti a saltare, a ballare, a spostare il baricentro, a scivolare sulla sella; a fare l’amore con la moto, e con la montagna stessa, proprio quel che fa Yvonnie in Impatience.
La montagna stimola alla calma ma anche all’impazienza; l’impazienza di superare in morbidezza una curva dopo l’altra, un ostacolo dietro l’altro, l’impazienza di vedere cosa c’è dietro la prossima, di arrivare a VEDERE, integri, soddisfatti, sani e salvi come dopo una vita movimentata.
E benché sia sempre un rischio guidare, la montagna non è mai subdola come la città quando si va in moto. Il primo è uno scontro alla pari: l’essere umano sul suo mezzo contro un ambiente naturale che esige, in primo luogo, rispetto, cautela. Senza essere un’orientalista, io la ringrazio, la montagna, come ringrazio la mia moto ogni volta che mi fa arrivare a casa solo con bei ricordi e bei pensieri.
In città è la gente a costituire il pericolo, continuamente, sui loro mezzi e con i loro pensieri, la loro poca saggezza e la molta impazienza, che non è un’impazienza intelligente e controllata: esiste una contraddizione più grande che la fretta degli automobilisti, o scooteristi, per arrivare a un lavoro che spesso e volentieri gli dà il voltastomaco o li stressa? E allora perché corrono per arrivarci?
Scappare dalla città, in fondo, è rinunciare alla guerriglia, a una posizione di difesa coi nervi, con la diffidenza e l’odio, l’irritazione sempre pronta a scattare. In montagna si guida in posizione di difesa, si deve, ma soltanto per continuare a sentirsi vivi, ogni istante.
È la condizione umana primordiale, quella che dovremmo tenere sempre presente.