STORIE DAL MIO GARAGE

Cronache (vere, o ispirate dal vizio di scrivere) di una motociclista italiana emigrata dove i locali, se possono, se ne vanno altrove.


05 settembre 2011

La montaigne

Posso dire di non aver mai vissuto la mia città veramente anche quando ci abitavo. L'ho sempre utilizzata più come base da cui partire per destinazioni selvagge, verdi.
Le quattro pareti di una stanza o lo spazio obbligato dei vari appartamenti in cui ho vissuto sono sempre stati come una parentesi - dove studiare, o preparare una cena, dove ricevere amici o vivere momenti d'intimità col mio compagno del momento.
In un certo senso nemmeno m’appartiene, Firenze: anche le vie del centro, pur suonandomi tutte all’orecchio, non so collocarle sul momento; sarà perché forse ho vissuto per vent’anni in periferia prima che i miei andassero a vivere in campagna e la campagna, comunque, l’ho sempre vissuta fin da piccola, quando andavamo nella nostra casa i fine settimana e durante l’estate.
Il mio momento più “metropolitano”, coinciso con gli anni di università, un lavoro in via del Proconsolo, dietro il Duomo, e un fidanzato greco che amava Firenze, ha coinciso anche con la mia prima fase da motociclista. E la vivevo con grande entusiasmo: l’emozione di avere due ruote sotto il sedere, un cambio a pedale e una leva della frizione a mano (la coordinazione mano/piede dà un certo senso di compiutezza, e le marce ben inserite ritmano il battito cardiaco, quasi, e il respiro) mi facevano guardare un po’ dall’alto tutto il resto, la città; il traffico, soprattutto, che frenava il mio impulso dinamico, e per questo l’emozione più grande era uscire da quel dedalo intricato di viuzze, lanciarmi verso i profili dolci delle colline, spalmandomi sulla rotondità delle prime curve della Via Bolognese, che ti portano fuori in venti minuti verso l’Appennino.
Ero polemica verso i quarti d’ora accademici, verso certi profili di universitari nati vecchi, insomma, anche la vita tra quelle pareti che in teoria avrebbe dovuto “liberarmi” altrettanto, attraverso certi corsi indimenticabili – di storia della musica, di letteratura, di cinema – alla fine mi stava stretta. Mi sembrava di comprendere la psicologia di certi scrittori, la potenza di certe arie musicali, e perfino la bellezza della mia città quando si gira per il centro di notte, solo quando montavo in moto, sola, e andavo.
La solitudine va di pari passo con la montagna (leggi: con l’ambiente selvaggio, con la natura). Si tratta di una dimensione astratta che nobilita il pensiero o meglio, fa delle molteplici sensazioni a malapena percepite internamente durante il giorno, Pensiero. Muovendosi lungo un nastro sinuoso di strada circondato dalle rocce o dal verde, certe idee si concretizzano, prendono corpo, diventano pura logica; passano dall’essere pura teoria a filosofia, a ragion d’essere secondo certi canoni che poi diventeranno la nostra stessa coerenza, i pochi punti fermi nella vita da cui mai ci allontaneremo in maniera inconscia, automatica.
È vero che la potenza evocativa del movimento dinamico e il contatto con l’aria sferzante, con gli odori del bosco e con la luce che rifinisce i colori, i contorni, uniti alla solitudine del viaggio, favoriscono fantasie e creazioni immaginarie, interi processi di riflessione, potremmo dire, sopra le righe, che poi si sgonfiano come palloni quando si smonta dalla moto e si spegne il motore. Ma è la montagna che, in fondo, rendendoli possibili ci aiuta a mirare sempre alto, a conservare quella parte di idealismo e romanticismo che a mio avviso risulta utilissima per mantenersi a margine della vita “vera”, non perché non si viva, ma solo perché restandone fuori, ci salviamo dalla malattia che invecchia il resto della gente. I sogni sono gli anticorpi più potenti di un essere umano, e quel che lo mantiene giovane. Ora, se la motocicletta tende ad esaltare la solitudine e a dirigerci verso la natura selvagga, verso strade poco trafficate e curve ben disegnate, la montagna, sua destinazione ideale, finisce per essere il luogo che permette al sogno di svolgersi nella mente del pilota, senza freni.
Parlando di freni, solo quelli mentali è ammesso non averli, e comunque il pensiero deve dipanarsi lungo un binario parallelo a quello della concentrazione, anche questa è un’abilità che si forma con l’esperienza: sia chiaro che non stiamo parlando, qui, di quegli smanettoni senza stile e senza talento, che si lanciano sui passi i fine settimana e sperano di sopravvivere grazie alle protezioni della tuta di pelle, senza saper guidare...
La montagna pretende, obbliga, forza all’intelligenza, tanto più quando si guida  per le sue strade. Ê una sfida continua, prevedere che un daino attraversi la strada all’improvviso, disegnare la traiettoria senza uscire dalla linea bianca di mezzeria nemmeno con l’ombra del corpo inclinato né avvicinarsi troppo al bordo, dove c’è sporco e ghiaia.
La montagna ci obbliga a guadagnare la saggezza, e l’equilibrio, una forma di ragionare tipica dei filosofi o quanto meno dei pensatori, che arrivano alla meta grazie al Metodo del loro ragionare. Lo sguardo che ci sentiamo addosso deve essere incisivo, concentrato e mobile (per guardare avanti e anticipare il pericolo, e ai bordi per evitare ogni intromissione improvvisa); il corpo intero partecipe alla guida, le braccia flesse, le gambe flesse, il piede appoggiato in punta, il busto in avanti, pronti a saltare, a ballare, a spostare il baricentro, a scivolare sulla sella; a fare l’amore con la moto, e con la montagna stessa, proprio quel che fa Yvonnie in Impatience.
La montagna stimola alla calma ma anche all’impazienza; l’impazienza di superare in morbidezza una curva dopo l’altra, un ostacolo dietro l’altro, l’impazienza di vedere cosa c’è dietro la prossima, di arrivare a VEDERE, integri, soddisfatti, sani e salvi come dopo una vita movimentata.
E benché sia sempre un rischio guidare, la montagna non è mai subdola come la città quando si va in moto. Il primo è uno scontro alla pari: l’essere umano sul suo mezzo contro un ambiente naturale che esige, in primo luogo, rispetto, cautela. Senza essere un’orientalista, io la ringrazio, la montagna, come ringrazio la mia moto ogni volta che mi fa arrivare a casa solo con bei ricordi e bei pensieri.
In città è la gente a costituire il pericolo, continuamente, sui loro mezzi e con i loro pensieri, la loro poca saggezza e la molta impazienza, che non è un’impazienza intelligente e controllata: esiste una contraddizione più grande che la fretta degli automobilisti, o scooteristi, per arrivare a un lavoro che spesso e volentieri gli dà il voltastomaco o li stressa? E allora perché corrono per arrivarci?
Scappare dalla città, in fondo, è rinunciare alla guerriglia, a una posizione di difesa coi nervi, con la diffidenza e l’odio, l’irritazione sempre pronta a scattare. In montagna si guida in posizione di difesa, si deve, ma soltanto per continuare a sentirsi vivi, ogni istante.
È la condizione umana primordiale, quella che dovremmo tenere sempre presente.




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