STORIE DAL MIO GARAGE

Cronache (vere, o ispirate dal vizio di scrivere) di una motociclista italiana emigrata dove i locali, se possono, se ne vanno altrove.


11 febbraio 2013

CADE LA NEVE...


La natura stende un velo pietoso su questo febbraio di campagne elettorali demenziali. Cade la neve, copiosa, su una realtà che almeno in provincia si respira immobile, in coma più che in attesa: sui disoccupati recenti e sui già da tempo senza lavoro; su bandoni serrati, attività chiuse per mancanza di fondi, su un traffico scarso per la benzina in rialzo. Sui soliti problemi.
È una coltre fitta, che da stamattina all'alba non accenna a smettere. Bella la neve, quando dà quest'illusione di pulizia luccicante col suo manto uniforme. Un tempo mi metteva allegria, ma oggi in particolare mi deprime, forse perché il cielo bianco-grigio che si porta dietro ne promette altra e altra, e ho il fuoristrada dal meccanico...
Ho fatto comunque un giretto fuori, assaporando il suono pieno dello stivale quando appiattisce lo spessore bianco, e respirando quel silenzio innaturale, tranquillizzante, che ti fa pensare a un mondo in apnea. Sarebbe auspicabile, in effetti, un po' di vero silenzio di fronte alla crisi generale che stiamo vivendo. Tutte le chiacchiere suonano così chiaramente...a chiacchiere, senza fondo, disoneste, inventate, temporanee; o anche magari oneste, ma così illusorie da far quasi rabbia. Se le raccontano, i politici. Basta guardarli dall'esterno, per capire che in fondo sono così lontani dalla risoluzione del problema. Davanti casa dei miei c'è un giardino quadrangolare con degli alberi. Da circa una settimana è stato recintato da enormi tavole metalliche, per incollarci su quei manifesti che esteticamente parlando sono tra le cose più brutte con cui si può imbrattare una città o un paese: una facciona, una frase, e il logo del partito. La neve oggi cade a tormenta, così che c'è da sperare che spinta dal vento possa occultare, se continua, anche quelle brutture e falsità.
Il cinema mi salva sempre nei momenti di bassa tensione. E ovviamente oggi mi è venuto in mente The Dead, l'ultimo film di John Huston tratto dal libro omonimo di Joyce. Non solo la scena finale, che vede appunto uno dei protagonisti guardare la neve che cade fuori dalla finestra di un hotel, ma proprio il pranzo tradizionale offerto dalle due anziane zie a parenti e amici, in Dublino.
Per tutta la durata del film, ascoltiamo certe chiacchiere che potrebbero anche non interessarci troppo: ricordi comuni, imbarazzi nascosti, ovvie malinconie; dialoghi sul filo delle buone maniere e di un'educazione rigida, ulteriormente imposta di fronte a due donne anziane che il rispetto e l'affetto spinge gli invitati a trattare bonariamente, coi guanti. Si balla anche, con lo stesso controllo e cautela nei movimenti; si suona e si parla di musica, ma sempre badando a non ferire la sensibilità di nessuno dei presenti. Poi, sul finale, il primo colpo di scena in mezzo a tanta (pur onesta) finzione e uniformità: una donna si commuove ascoltando un ospite tenore improvvisare un'aria davvero toccante. E nella scena successiva la donna, in hotel, si apre al marito, spiegando il motivo della sua commozione, e piangendo di nuovo al ripensarci: il ricordo di un amore giovanile, purtroppo scomparso in giovane età, proprio a causa dell'amore. D'un tratto le chiacchiere del film intero acquistano un senso nuovo: diventano interpretabili come il mormorio sommesso della vita normale, che gli uomini passano nascondendo ora agli altri ora a se stessi le verità vere..i sentimenti, le paure, i sogni, il loro io.
The Dead
La donna si addormenta, esausta dopo una rievocazione dolorosa, mentre l'uomo si attarda a guardare la neve fuori della finestra: la osserva cadere sulle case e la immagina coprire del suo manto uniforme le tombe degli esseri amati, dei morti per amore, che hanno vissuto più in pochi anni che in una lunga vita. E la cena, la festa, riappaiono come una malinconica danza di ombre; una pietosa sfilata di esseri indifesi di fronte alla propria mortalità, alla propria fragilità d'esseri umani.
Cade la neve, anche oggi, e allo stesso modo, mi sembra, su questa nostra collettività di illusi e di disillusi, di vittime e di boia. Cade, rendendo uniforme il destino di tutti e ridicoli gli sforzi di chi crede d'essere diverso. Cade sui vivi, e sui morti.






18 novembre 2012

La verità di Cabiria



adorabile cabiria...
Era il 1957, e Giulietta Masina faceva inconsciamente da portavoce al popolo di Roma, esprimendo in sintesi le differenze tra la gente comune (il popolo, appunto) e quei pochi che ancora si potevano permettere il lusso dell'automobile.
Lei, sotto le vesti della più adorabile delle prostitute, Cabiria (in uno dei pochissimi film di Fellini che, personalmente, non sono invecchiati, restando capolavori) la vediamo smontare dal vano di carico di un'ape che sciupa l'incanto della notte con lo strepito del suo due tempi. Saluta con un certo affetto l'avventore abituale che l'ha avuta probabilmente non più di mezz'ora, e si avvicina al gruppetto di conoscenti che stazionano lì: altre prostitute più o meno "amiche" sue, e il magnaccia, a occhio e croce un ragazzo che ha fatto carriera presto in quel settore, e che da poco "si è fatto" la Seicento. Facendo le lodi della macchina, il tipo si avvicina a uno dei ragazzi che con le loro motociclettine sul cavalletto stanno intorno alle donne, come mosche sul miele, e gli dice: "Ah Brù! Sempre su 'ste brode, stai? Ma come fai...." Il resto non si capisce, ma il senso è chiaro: la moto è per i poveri, o al limite per i fannulloni che non sanno che fare delle loro vite, e passano il tempo ronzando intorno alle puttane.

Cabiria, da parte sua, si avvicina tutta entusiasta alla Seicento nuova di zecca, ed esclama: "Carina, eh? Che sciccheria! Io se fossi stata te me la sarebbe fatta grigia, è più un colore fino...però è carina!" e poi aggiunge: "Eh! Certo che la Fiat è sempre la Fiat, eh? Embè, con la macchina è tutta un'altra cosa. Ti metti al volante, tutta cosona, la freccia a destra, la freccia a sinistra BRAM! BRAM!....Ti scambiano per una persona DISTINTA, un'impiegata, una fia de papà. E allora vedrai che sono gli uomini che ti vengono appresso. Ah!  È una soddisfazione".
Chissà se questo monologo è stato inserito in sceneggiatura dopo che le immagini "selvagge" di Marlon Brando sulla sua Triumph erano arrivate anche sui grandi schermi italiani, consacrando il motociclista a ribelle irrecuperabile, a violento (e piuttosto stupido). Chissà se i ragazzi romani appollaiati sulle loro Gilera o MV (chi mi aiuta a identificare almeno un paio delle piccole moto che si intravedono in questa sequenza?) avevano visto il film di Benedek, e apposta "giocavano" a interpretarne la versione italiana...in un certo senso più onesta: da noi le due ruote erano servite a rimettere in piedi il paese, nel dopoguerra. Erano state molto più che un mezzo per ribelli, per ragazzi pigri a trovare migliori motivazioni.
E comunque, se non si usavano per andare a lavorare, le moto da noi erano una scuola di vita: le si poteva ricostruire o modificare o aggiustare, e anche questo costituiva un metodo potenziale per trovarsi un impiego.
È un fatto, comunque, che nel film di Fellini le moto facciano da co-protagoniste a giovani farfalloni,  a ragazzi semplici, stereotipi del "maschio" italiano tipico dell'epoca (che in verità non si è troppo evoluto): appassionato (ma non necessariamente esperto, eh! eh!) di donne e motori.

Volendo comunque recuperare un po' il mito del Selvaggio, si può dire, come scusante dei bikers che ispirarono il film con Marlon Brando, che erano quasi tutti disoccupati, da poco tornati dalla guerra in Europa, dove ne avevano viste di tutti i colori, e piombati nell'America "felice" del New Deal, sicuramente confusi da tanta allegria e ottimismo, demotivati all'idea di investire altre energie nella corsa al benessere. Da qui, la necessità di fuggire, lasciandosi alle spalle il tuono degli scarichi, il rombo dei motori - tutta la loro protesta - e idealmente senza una meta, andare all'infinito, in cerca di se stessi.

A ben guardare, anche Cabiria, sotto sotto, stava esprimendo in quella scena la sua protesta al mondo. Proprio lo stesso giorno era stata buttata a fiume dal tipo sbagliato: un amante evidentemente "promosso" a fidanzato, e che si era rivelato il solito scroccone, derubandola e quasi facendola affogare. Wanda, la cicciona buona nel film, prostituta e sua vicina di casa, le apre gli occhi quando lei ancora crede che il compagno sia fuggito per paura, vedendola in acqua; che non l'abbia buttata lui. Ma Cabiria è orgogliosa, e non si adatta facilmente all'idea di aver sbagliato, di essere stata sfruttata da uno che non la meritava..forse un motociclista, come uno di quei giovani. E invece di specchiarsi negli occhi di Wanda, quando la vede sul posto di lavoro, quella notte, si lancia tutta entusiasta e con lo sguardo brillante in quell'ode alla Seicento, in fin dei conti prendendo in giro certi furbastri come il magnaccia, che si possono permettere la macchina sfruttando le donne.
Sono forse meglio quelli che possono mettere il culo su un'automobile, Wanda? O non è pur sempre preferibile farsi abbindolare da un disgraziato, magari un motociclista, che almeno si vende sempre per quel che è, un amabile truffatore?