Cronache (vere, o ispirate dal vizio di scrivere) di una motociclista italiana emigrata dove i locali, se possono, se ne vanno altrove.
31 ottobre 2012
E le facce?
Surreale e grottesca notte di
Halloween…Qui in Italia voglio dire,
dove le maschera è sacra, il travestimento uno degli hobby preferiti, la
barzelletta l’unico modo di piangere i nostri mali, la leggerezza la scusa
universale, giustappunto, per mascherare il vuoto, la carenza di ideali, e di
valori.
Sacrosanta ironia, prezioso senso dell’umorismo, senza il quale un individuo
(intelligente) non vale poi molto, soprattutto oggi. Peccato che l’adozione
gratuita di una festa non nazionale per quelli che a fine ottobre sono in crisi
d’astinenza da carnevale, io non la capisca.
Il valore potenziale del travestimento, della mascherata, non ha bisogno di
tante spiegazioni. Persino noi che andiamo in moto ne sappiamo qualcosa.
L’adozione di un’uniforme per guidare – casco, guanti, tuta di pelle, stivali
con relativi annessi (copriguanti, sottocasco, protezioni varie ecc) – oltre
che una necessità per quelli che fanno sul serio, è una consolazione per gli
altri: l’affermazione di un’identità e allo stesso tempo uno schermo, una
difesa contro gli altri. La moto stessa,
oggi, è una maschera per molti: un miraggio di falsa sicurezza, o di falso
benessere. Perché la moto bisogna prima di tutto sentirla nel sangue, e
secondariamente saperla guidare, cosa non da tutti queli che se la comprano.
OGGI, ripeto. Prima era diverso. Prima era ovvio che alla moto arrivavano solo
quelli che potevano capirla e amarla, magari anche metterci le mani per
ripararla o metterla a punto (quando ancora era possibile, tra l’altro).
Personalmente, ho smesso di salutare quelli che mi salutano per strada. Sembrerò
arrogante, ma spesso oramai mi basta vederli da lontano – la guida,
l’uniforme.. – per sapere se hanno qualcosa in comune con il mio stato dinamico
del momento, con la mia passione, o se sono “in maschera” da Halloween: poveri
festaioli superflui, penosi.
E comunque, è “in maschera” perfino l’impiegato di banca, col suo completo firmato e la
cravatta inguardabile, e la donna manager, che nonostante possa mancare del
physique du role necessario, non trascura di portare gonne sopra il ginocchio e
tacchi da maliarda per mascherare la propria insicurezza, inammissibile in
questa società triste.E dunque: dai,
mettiamo una maschera sopra la maschera, e facciamo festa, che tutto andrà
bene.
Ho pensato: quando il cinema nacque era privo di suono. Muto, si chiamava.
Molto rapidamente scomparve la gestualità eccessiva, i volti eccessivamente
drammatici a sostenere didascalie prevedibili, e al suo posto, la maturazione
di un’arte che dall’inizio è andata di corsa come la storia della motocicletta,
comparve il cinema muto degli anni d’oro. TUTTO si poteva dire, col corpo, e
con lo sguardo. Poche didascalie, le parole erano un sovrappiù. La persona era
un essere comunicante dal profondo, e anche quando mentiva sotto le spoglie
d’attore, in un certo senso pronunciava verità universali: amore, amicizia,
paura, coraggio, allegria. Non a caso, l’avvento del sonoro vide niente di meno
che lo stesso Chaplin risolutamente contrario. La parola era considerata una
regressione, l’attore “parlante” faceva ridere. Poco dopo, anche questa barriera
fu brillantemente superata dai maestri. Gli attori iniziarono a saper parlare,
ma la tecnica cinematografica imparò a sottolineare tanto il volto quanto la recitazione.
Ma guardiamo la realtà, oggi: dove sono i volti? Il cinema muto
ha fatto un unico coraggiosissimo tentativo di rinascere nel 2000, con il film THE ARTIST di Hazanavicius, un
autentico capolavoro, che ha confermato la capacità che I VOLTI possano dire
ogni cosa e che noi possiamo comprenderli, alla faccia della modernità, che ha visto la gente perdere gradualmente la facoltà di comunicare con la propria espressività.
THE ARTIST
Si preferisce farlo attraverso la tecnologia, oggi:telefonini, computer e rispettivi derivati, è
il progresso, già. Indubbiamente se ne possono ricavare vantaggi notevoli ma la
MASCHERA, a questo punto, è la macchina che ci tiene isolati. Protetti, e
felici anche, stando all’impressione che mi dà, in generale, lo sterile botta e
risposta cui istiga Facebook . Comunicazione? Sì, un brusio enorme, a prima vista. In realtà, è il
SILENZIO; incomunicabilità dovuta proprio alla distanza o alla mancanza di tempo, un
tema che ho già trattato. Se solo si potessero vedere quei volti mentre scrivono...
E invece, non solo si sono perse le facce, ma si è persa anche la facoltà
di pronunciare frasi che meritino d’essere ricordate. Dialoghi che ci svelano,
o in cuidall’esterno ci si immedesima,
maturando sulla nostra propria condizione.
Un’unica cosa è rimasta, almeno personalmente: il monologo interiore.
Favorito dalla maschera del casco che contiene non solo il mio cervello ma gran
parte delle mie emozioni. Frammenti di idee e mezze frasi che a questo pùnto,
non sarò più capace di pronunciarea
nessuno senza perdere l’emotività favorita dal mezzo, dal momento. La
solitudine è lo stadio creativo per eccellenza, da sempre, ma oggi è anche la
condizione cui ci obbligano le risorse della tecnologia. E la paura, di non
saper più ritrovare la persona vera dietro i suoi vari “strati” sorridenti e
multicolori.
È l’unica cosa che posso augurare a streghe, streghette e ad altri inermi
che anche stasera metteranno una maschera sulla maschera (la festa non si
resiste, e c’è chi si traveste già da una settimana). Che sotto sotto,
conservino qualche pensiero intelligente, solo per loro.
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